E Hamas chiama alla “guerra”
di Amos Harel –
Lo spargimento di sangue di venerdì scorso ai confini fra la striscia di Gaza e Israele (sette palestinesi morti) è stato il peggiore da quasi due mesi. Questa nuova esplosione di violenza ha tutta l’aria d’essere il risultato diretto di una decisione di Hamas. E’ da settimane che i capi dell’organizzazione islamista minacciano di intensificare gli scontri lungo il confine con Israele a causa dell’impasse nelle trattative per un cessate il fuoco, per la riconciliazione fra fazioni palestinesi e per la ricostruzione della striscia di Gaza. In tutto questo periodo, la frequenza delle manifestazioni violente è aumentata quasi ogni giorno, e lo stesso vale per i tentativi di sfondare la barriera di confine.

Amos Harel
Venerdì scorso decine di manifestanti sono riusciti a superare la barriera, finché l’intervento dei soldati israeliani non li ha costretti a ripiegare. Secondo le Forze di Difesa israeliane, circa 20mila attivisti palestinesi hanno preso parte alle manifestazioni di venerdì, quasi il doppio della settimana precedente. Durante gli assalti, i palestinesi hanno lanciato più di 100 granate e ordigni esplosivi (in almeno due casi velivoli israeliani hanno attaccato gruppi che lanciavano granate, mentre continuano i lanci palestinesi di aerostati incendiari oltreconfine: una decina gli incendi appiccati solo nella giornata di domenica). Questi dati attestano una evidente pianificazione a tavolino degli incidenti.
Le manifestazioni della cosiddetta “marcia di ritorno” sono iniziate il 30 marzo come un’iniziativa apparentemente spontanea della società civile di Gaza.
Ma quasi tutto ciò che è accaduto da allora riflette un piano d’azione organizzato da Hamas, che controlla il tasso di violenza e finora lo ha efficacemente contenuto ogni volta che la situazione rischiava di deteriorarsi al punto da rendere molto probabile una contro-operazione militare israeliana dentro Gaza.

Un giovane palestinese ferito negli scontri di venerdì riceve cure in un ospedale di Khan Yunis
L’ultimo round di gravi violenze tra Israele e Hamas si era verificato lo scorso 8 agosto, quando i palestinesi lanciarono circa 200 razzi contro le comunità israeliane e l’aviazione reagì attaccando decine di bersagli terroristici nella striscia di Gaza. Dopo di che venne combinata una sorta di tregua temporanea attraverso la mediazione di Egitto e Nazioni Unite, e vennero avviati colloqui per un’intesa a lungo termine. Ma questi colloqui, per la maggior parte condotti al Cairo tra Hamas e Autorità Palestinese, si sono arenati. E in assenza di progressi, Hamas ha ricominciato a infiammare gradualmente la situazione lungo il confine.
Le speranze dell’Egitto per un accordo a lungo termine necessitano ancora del contributo del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ma Abu Mazen non ha alcun interesse a favorire un accordo che possa aiutare il suo nemico e rivale politico, Hamas, che per di più vedrebbe premiato il suo sistematico ricorso alla violenza. Tutto ciò che i mediatori hanno ottenuto finora – nuove donazioni per l’Unrwa e l’apparente disponibilità del Qatar a pagare il combustibile per la centrale elettrica di Gaza – costituisce solo una parziale compensazione delle sanzioni recentemente imposte ai palestinesi da Washington, e a Gaza dallo stesso Abu Mazen.
E l’impatto di queste sanzioni potrebbe peggiorare nei prossimi mesi. E’ su questa base che si fondano le valutazioni pessimistiche circa il probabile intensificarsi delle violenze a Gaza che le agenzie di intelligence hanno espresso nelle ultime riunioni del governo israeliano. Lo scorso fine settimana, ai giornalisti che lo accompagnavano a New York per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che il governo e l’establishment della difesa sono pronti “per qualsiasi scenario”. “E questa non è una frase retorica”, ha aggiunto.
(Ha’aretz)